L’Alleanza Contro la Povertà ha pubblicato i primi risultati di una ricerca, condotta da esperti e docenti universitari, sull’evoluzione della povertà in Italia a seguito della pandemia di Covid-19 e le conseguenti proposte di policy. La ricerca è divisa in quattro sezioni: Efficacia del RdC ed equità orizzontali; l’implementazione dei percorsi d’inclusione nel RdC; come affrontare attraverso l’RdC l’impatto della pandemia sui lavoratori e come evitare la trappola di povertà nel Reddito di Cittadinanza. Nell’articolo che segue un approfondimento su gli ultimi due punti.
Lo studio dei più recenti dati e le analisi da noi condotte sull’impatto della pandemia nei diversi settori produttivi e per le diverse professioni mostra un possibile forte cambiamento della tipologia degli individui che potrebbero ricadere in povertà nel prossimo futuro. Questo porta ad interrogarci sulla effettiva capacità dell’attuale RdC di generare un’adeguata inclusione lavorativa per quella parte dei beneficiari che vengono avviati verso i Patti per il lavoro. Premesso che dovranno essere attivati adeguati strumenti di politica attiva del lavoro che dovranno riguardare tutti coloro che purtroppo si troveranno senza lavoro a seguito della pandemia, le persone che oltre alla perdita del lavoro potranno anche cadere in povertà e accedere al RdC si suppone che debbano essere non solo sostenute economicamente dal RdC nel momento del bisogno ma necessitino al contempo di essere valorizzate e indirizzate, tramite la componente attiva della misura, attraverso un percorso che necessiti di formazione specifica, volta all’adeguamento delle loro competenze (up-skilling e re-skilling), in grado di potenziarne le capacità rispetto alla domanda di lavoro emergente, che con ogni probabilità richiederà una nuova organizzazione del lavoro e superiori capacità tecnologico-informatiche. Sarà dunque necessario rafforzare i percorsi di inclusione lavorativa, anche prevedendo specifici meccanismi di in-work benefit.
Le nostre analisi si sono concentrate sulle transizioni al di fuori dell’occupazione per cause diverse da pensionamento o cura, malattia, maternità, avvenute nel corso dell’ultimo anno per i lavoratori dipendenti, sia a tempo determinato che a tempo indeterminato, e per i lavoratori autonomi, nonché sul ricorso ai trattamenti di integrazione salariale (cassa integrazione e fondi di solidarietà) nel terzo e quarto trimestre 2020 per i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato.
Come è noto i lavoratori a tempo determinato sono quelli che hanno mostrato maggiore sofferenza (17,7% hanno perso il lavoro nel 2020 rispetto all’11,8% del 2019), mentre nell’ambito del lavoro autonomo la differenza è meno marcata (2,9% rispetto a 2,3%). Nonostante il blocco dei licenziamenti, le uscite dall’occupazione per i lavoratori a tempo indeterminato nel 2020 sono state simili a quelle del 2019 (circa il 2%). Quest’ultima categoria mostra inoltre nel 2020 un ricorso alla cassa integrazione sensibilmente superiore a quello registrato nel 2019 (1,5% e 1,9% rispettivamente nel terzo e quarto trimestre del 2020 rispetto allo 0,13% registrato nell’anno precedente).
L’analisi settoriale (condotta con modelli econometrici che controllano le caratteristiche individuali dei lavoratori) evidenzia che, rispetto al settore all’industria in senso stretto, mostrano maggiori probabilità di fuoriuscita dall’occupazione quelli delle costruzioni, degli alberghi e ristoranti, degli altri servizi collettivi e personali, delle attività immobiliari e dei servizi alle imprese e altre attività. Soprattutto, è la crescita (rispetto a quanto accadeva nel 2019) della probabilità di transitare fuori dall’occupazione che sorprende, in modo particolare nei servizi della ristorazione e alberghiero (dove raddoppia), e nelle attività immobiliari e servizi alle imprese (+50%) e negli altri servizi collettivi e personali (+30%). Anche i dati analizzati sulla cassa integrazione confermano la grande sofferenza potenziale dei settori alberghiero e della ristorazione e in prospettiva del commercio al dettaglio.
Per quanto riguarda le professioni, l’analisi econometrica evidenzia una maggiore probabilità di uscita dal mercato del lavoro per le professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi, gli artigiani, e, soprattutto, le professioni non qualificate. L’analisi dei dati a disposizione sulle integrazioni salariali mostra un peso rilevante dei lavoratori in tale condizione nel terzo e quarto trimestre del 2020 nelle professioni qualificate nel commercio e servizi. Il risultato più importante, rispetto al possibile forte incremento degli individui in povertà, riguarda l’analisi distributiva che abbiamo condotto, dalla quale risulta per i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato una probabilità di perdita del lavoro molto più elevata per gli individui appartenenti ai primi tre decili della distribuzione (con retribuzione mensile fino a 1.115€). Questo non accadeva nel 2019.
Incrociando le analisi per settori, professioni e classi reddituali, i profili maggiormente a rischio di transitare fuori dall’occupazione sia tra i dipendenti sia tra gli indipendenti sono i lavoratori a bassa retribuzione nella categoria delle professioni qualificate del commercio e dei servizi, specialmente se impiegati nel settore alberghi e ristoranti e altri servizi collettivi e personali. Tra gli autonomi, appaiono particolarmente esposti i lavoratori nel commercio al dettaglio.
L’evoluzione dell’occupazione ci porta a ritenere che in futuro possa esserci una distribuzione delle opportunità occupazionali principalmente concentrata sulle professioni con elevate competenze, a discapito anche della creazione di occupazione nei servizi low-skilled per quanto non automatizzabili, contrariamente a quanto accaduto nell’ultimo decennio. Inoltre le modalità di lavoro potrebbero mutare notevolmente con la diffusione del lavoro da remoto e del commercio a distanza e le inevitabili ripercussioni che determinerebbero, con un forte impatto negativo proprio per quelle professioni e settori che mostrano oggi maggiori fragilità (tra le quali le professioni qualificate nel commercio, nei settori alberghiero e della ristorazione e quelle non qualificate nei servizi; professioni che vengono svolte anche da lavoratori autonomi). La necessità di azioni di re-skilling e up-skilling tra i lavoratori che usciranno dal mercato del lavoro in questi settori risulterà fondamentale in particolare tra coloro che dovranno far ricorso al RdC. Tale misura di sostegno dovrà dunque essere potenziata nella sua parte attiva per meglio poter sostenere l’inclusione lavorativa dei nuovi poveri, attraverso la formazione e l’aggiornamento delle competenze, in particolare nel campo digitale, ma anche attraverso misure di accompagnamento verso l’imprenditorialità, per coloro che propendono verso l’occupazione indipendente.
Dal punto di vista della componente passiva della misura occorre che si operi una modifica strutturale del RdC che consenta di cumulare almeno in parte il reddito da lavoro con il sussidio in modo da accompagnare adeguatamente i beneficiari – tenendo conto che il percorso di inclusione sociale e lavorativa debba essere considerato nel suo insieme, alla luce delle peculiarità emerse dalla crisi pandemica – verso l’inclusione lavorativa, facendo operare per loro il RdC come un in work benefit ed evitando che tali beneficiari possano ritrovarsi in una trappola della povertà.
Ma come evitarla?
La nostra analisi parte dalla constatazione che attualmente il RdC non è disegnato in maniera adatta a favorire la transizione da una condizione di sussidio ad una condizione occupazionale né a fornire un adeguato sostegno economico che permetta di fuoriuscire dalla condizione di povertà con una progressiva emancipazione per coloro che presentano redditi molto bassi o irregolari, altro importante elemento di una misura di reddito minimo. Questo perché non è sostanzialmente garantito nel medio periodo il cumulo tra il reddito da lavoro e il beneficio legato al RdC, che anzi viene ridotto di pari misura per ogni euroguadagnato. Vi è infatti una riduzione del computo del reddito solo all’interno dell’Isee ma non con riferimento alla soglia reddituale, che, come mostra la nostra analisi nella sezione 1, è quella maggiormente vincolante ai fini della selezione dei beneficiari e che determina l’importo del beneficio. Lo sconto aggiuntivo del 20% del nuovo reddito da lavoro previsto per il primo anno nel calcolo della componente reddituale (o il vantaggio in termini di mensilità concesse inizialmente a favore dei lavoratori indipendenti) non risulta sufficiente a nostro avviso per gli scopi sopra indicati.
Da un confronto internazionale sulle misure di reddito minimo operanti nei nostri principali partner dell’Unione Europea, risulta che i modelli che potrebbero essere presi a riferimento per una trasformazione del RdC che consenta un suo utilizzo come in work benefit per coloro che sono soggetti ad un Patto per il Lavoro, evitando la trappola della povertà, sono quello francese e (in maniera meno efficace) quello tedesco. Non va tuttavia esclusa la possibilità di tornare al passato, ripristinando il meccanismo che era in vigore per il Rei, che, pur non essendo particolarmente incentivante a favore del lavoro, permetterebbe almeno di attutire il rischio della trappola di povertà. L’analisi che stiamo effettuando porta quindi a limitare la scelta a una fra tre possibilità che dunque elenchiamo come alternative.
1) Introdurre una decurtazione permanente del 20% del reddito da lavoro (con un tetto massimo) nel calcolo reddituale per la elezione dei beneficiari e la determinazione del beneficio. Non verrebbe creato un vero e proprio in-work benefit ma, oltre a limitare fortemente la trappola di povertà, questa soluzione presenta il vantaggio della semplicità e potrebbe essere adottata anche come misura graduale in attesa di progettare un’azione più incisiva. Dovrebbe in ogni caso essereuniformato il trattamento del reddito da lavoro autonomo.
2) Rendere maggiormente articolato il meccanismo di esenzione della quota di reddito da lavoro (sia dipendente sia indipendente) nel calcolo dell’indicatore in linea con quanto avviene in Germania, dove la percentuale di esenzione varia (dal 10% al 20%) in base al livello del reddito da lavoro percepito (è più bassa all’aumentare del reddito) con un tetto che varia anche in base alla composizione familiare.
3) Ridurre in maniera più marcata l’aliquota marginale effettiva sul reddito da lavoro (sia dipendente sia indipendente) portandola al 60%, in modo da aumentare sensibilmente il reddito disponibile derivante dalla combinazione tra tale reddito con il sussidio proveniente dal RdC, fino ad una determinata soglia (che potrebbe essere fissata anche in relazione alla no-tax area). Questa proposta sarebbe in linea con il sussidio previsto in Francia (Prime Activité), che costituisce un articolato schema di in-work benefit nel più ampio sistema di reddito minimo (Revenue de Solidarité Active).
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