“La riforma del Reddito di cittadinanza si infrange contro la realtà delle cose: l’sms, scritto malamente, che annuncia la sospensione, ha scatenato il panico e i servizi sociali sono presi d’assalto, senza poter far altro che non sia, nel migliore dei casi, prestare ascolto e cercare di fare chiarezza”: a parlare è Gianmario Gazzi, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Assistenti Sociali, una delle organizzazioni che fa parte dell’Alleanza contro la Povertà in Italia. “Questa riforma torna ad affidare il tema della povertà e dell’indigenza alle comunità locali, reindirizzandole verso i comuni, tornando a un modello somigliante a quello del Rei. Il problema, però, è che non si è mantenuto, nella riforma, quell’universalismo che, anche come Alleanza contro la povertà, indicavamo come principio fondante, perché nessuno restasse escluso. Ora la scelta politica è stata fatta, senza calcolare i tempi”.
E quindi, cosa sta succedendo?
Il messaggio inviato dall’Inps, peraltro scritto malamente, di fatto indirizza ai servizi le persone occupabili, per la valutazione di un’eventuale presa in carico: ma questo invio avviene repentinamente e in un modo che definirei imbarazzante, scatenando il panico tra i percettori.
E chi sono, questi percettori?
Nella stragrande maggioranza dei casi, non sono “furbetti”, ma persone con problematiche molto complesse. Questo non lo dico io, ma lo dimostrano tutti i report di Inps e i documenti di Caritas, Alleanza contro la povertà ecc. Non stiamo parlando di furbetti, ripeto, ma di vite reali, persone in carne e ossa, spesso fragilissime.
E i servizi come stanno reagendo?
I servizi non sono stati avvisati, né preparati, né tanto meno attrezzati per accogliere queste persone e le loro preoccupazioni. Ci sono regioni e ambiti territoriali che negli ultimi anni non hanno rafforzato i servizi, come invece prevedeva legge: già erano in difficoltà, ora si trovano ad affrontare una massa di persone spaventate che chiedono spiegazioni. Ma noi, in questo momento, non possiamo fare altro che ascoltare, perché mancano le strutture e le indicazioni. C’è anche il lavoro dei centri per l’impiego per chi deve fare formazione, sempre che questa formazione ci sia. Siamo finiti in quello che si chiama “cul de sac”: è stato avviato un processo senza mettere in campo i prerequisiti per avviarlo. Tali prerequisiti in alcuni territori ci sono, in altri assolutamente no.
Cosa vi preoccupa, ora?
Soprattutto le reazioni aggressive, se non violente, che si possono scatenare in questo momento, mettendo a rischio gli assistenti sociali che lavorano negli uffici e, come si usa dire, ci mettono la faccia. I nostri colleghi devono essere messi nelle condizioni di dare risposte e di lavorare bene: non è pensabile che certifichino una situazione senza prendere il tempo necessario per una valutazione della persona e del contesto. E poi ci sono tute le altre urgenze sociali, che non si fermano: dipendenze, violenza sulle donne, salute mentale, disabilità, altre povertà… Non è pensabile che i servizi sociali siano dedicati unicamente al supporto per la formazione e il lavoro.
Come rimediare a questo “pasticcio”?
Innanzitutto, serve una deroga rispetto a una tempistica così stretta. Nel frattempo, però, occorre individuare le condizioni migliori per dare una risposta congrua alle varie domande che arriveranno. Parliamo di persone che sono in condizione di fragilità sociale, culturale, di salute e non è detto che siano pronte e capaci di cogliere tutte le opportunità e i rischi della situazione. Se c’è la volontà politica, penso che si possono trovare escamotage per darsi un po’ più di tempo. Intanto, però, le regioni e i comuni devono mettersi nelle condizioni di utilizzare i fondi, perché il tema delle risorse sui servizi è fondamentale. Un grafico di Secondo Welfare fa vedere come si sono mossi fondi per il sociale negli ultimi anni: oggi sono tornati ad essere quelli precedenti la crisi del 2008. Dobbiamo quindi iniziare a a usare quelli, che in molti territori non sono stati usati. Serve uno sforzo del sistema paese, che concerti un investimento serio, dal governo fino all’ultimo dei comuni o degli ambiti: la deroga non deve essere una “pezza”, ma ha senso se contemporaneamente si investe sulle strutture. Se gli enti locali hanno risorse e possono fare investimenti sui servizi, li facciano adesso.
Ci sono regioni in cui il “panico da sms” si è scatenato con particolare violenza?
Sono state colpite tutte le regioni, sto ricevendo messaggi anche dal Trentino. Poi certo, dove esiste la combinazione tra servizi poco strutturati e numero di domande particolarmente elevato, è difficile per gli assistenti sociali anche prendersi quei cinque minuti necessari per parlare con le persone. E questo sta accadendo soprattutto al meridione. Ma il problema, ripeto, è trasversale e non risparmia alcun territorio.
Ci sono “categorie” che il decreto, almeno nella sua prima formulazione, escludeva dall’Assegno d’inclusione: i care leaver, per esempio…
L’allarme che abbiamo lanciato sui care leaver sembra sia rientrato, con l’inserimento di una nuova categoria: quella di chi potrà ricevere l’assegno in virtù di una certificazione dell’amministrazione pubblica che dimostra la partecipazione a un progetto d’inserimento socio-sanitario. Anche le donne vittime di violenza non dovrebbero aver problemi, diversamente da quanto inizialmente era stato segnalato. Io credo, però, che emergeranno, via via, diversi problemi e differenti “esclusioni”. La criticità è nell’approccio: se l’approccio è categoriale, è inevitabile che resti escluso anche qualcuno umanamente riconosciuto come fragile. Abbiamo sempre detto, insieme all’Alleanza contro la povertà, che la misura deve essere universalistica, prevedendo poi delle estrazioni, come avviene con i requisiti di reddito. Seppur ci siano stati dei miglioramenti rispetto al testo iniziale, il decreto conserva un approccio categoriale molto rischioso.